Sull’orlo dell’innocenza

La burocrazia molto spesso è un ostacolo e va migliorata. Su questo non ci piove.

Ma siccome in Italia, ogni volta che piove, si sfiora una tragedia, mi viene il dubbio che si tratti di un facile capro espiatorio.

La tempistica amministrativa, le difficoltà procedurali e i gangli moltiplicatori di leggi non possono essere la risposta ai problemi che oggi piegano il nostro Paese.

Negli anni se ne parla di continuo, in passato è stato addirittura istituito un Ministero per la semplificazione, ma, finora, risultati concreti manco a parlarne. Nelle interviste almeno.

Quindi: o la trincea comunicativa della “burocrazia come fonte e panacea di tutti i mali” è ormai scaduta e abusata, o mancano le risposte giuste.

In entrambi i casi, resta il problema di come vanno le cose. E cioè male. E finché se ne parla e basta, nemmeno velocizzare le pratiche servirebbe a niente.

Essere una frana contribuisce a creane di nuove.

Polso salva vita

Il titolo di questo articolo potrebbe far pensare che la Beghelli abbia deciso di organizzare una gara di solidarietà fra parti del corpo umano (se intendiamo per vita quella compresa tra fianchi e torace).

E, in un certo senso, è così.
Il salva-gente altro non è che un appiglio alla vita (sempre quella corporea) a cui ci si aggrappa per mezzo dei polsi.

Ma, volendo essere meno filosofici e più concreti, questa storia racconta di un uomo a cui davvero il suo polso ha salvato la vita (quella intera, non solo una parte).

Bob Burdett è un signore di mezza età a cui piace pedalare.
Non solo, a quanto pare è anche uno abbastanza appassionato di tecnologia, tanto da portare sempre con sé uno smartwatch durante le sue passeggiate in bicicletta.

Succede che mentre pedalava nel Riverside State Park (Stati Uniti), cade improvvisamente a terra. Nessuno se ne accorge, o almeno, nessuno che abbia gli occhi se ne accorge.

L’unico a capire cosa stesse succedendo è l’orologio che Bob portava al polso: non un orologio qualunque però, ma uno di quelli in grado di pensare e di agire. Un orologio smart insomma.

Il piccolo aggeggio, da solo, chiama il figlio di Bob, e nel frattempo contatta anche il 911 (numero d’emergenza americano) per mandare un’ambulanza sul luogo. Ah, perché l’orologio è in grado anche di capire dove si trova, e mandare la sua posizione agli altri.

Così è stato spiegato come un polso può salvare una vita. Ma, di fondo, c’è molto di più.

Alcuni giorni fa ho posto una domanda sul mio profilo Instagram, in cui mostravo delle foto scattate per un esperimento.
Le foto le trovate qui (https://bit.ly/2kxdQOM): ritraggono delle persone intente a stare sui loro telefoni invece di dialogare fra loro, solo che i telefoni sono stati rimossi per dare un’immagine d’impatto della questione.

Ho chiesto se quelle foto ci facessero sembrare degli stupidi, oppure se fossero il segno di una nuova specie umana.
Ahimè, la risposta che ha prevalso alla fine è stata la prima.

Certo, passare il giorno chini sul telefono non ci fa essere degni dell’etichetta di homo sapiens. Ma il problema secondo me non è la tecnologia, quanto il motivo per cui passiamo ore e ore sul telefono.

Nel caso di Bob, per esempio, la tecnologia non ci fa passare per stupidi.
Come, di sicuro, la tempestività di un tweet o di un messaggio su WhatsApp è riuscita a risolvere alcune emergenze.

Il problema, come sempre, sta nell’approccio: se tu passi ore su Instagram a bruciarti gli occhi per guardare le storie di tutti, e credi che ricaricare la home sia l’unico obiettivo della tua giornata, beh probabilmente in quel caso sì, sei uno stupido demente.

Ma non puoi per questo affermare che tenere in mano un telefono e guardarlo per ore sia da scemi.

Facciamo un passo indietro.

Ciò che oggi è il telefono, un tempo era la penna.
C’era chi scriveva lettere d’amore, chi scriveva La Divina Commedia, e chi utilizzava carta e penna per inviare minacce di estorsione.

Possiamo per questo dire che Dante era uno stupido demente?

Non credo che questa sia la soluzione, come non lo è tornare ai telefoni privi di connessione (quanto vi manca il 3310, vero?).

La questione, però, diventa anche peggiore nel momento in cui, se tu ti comporti da stupido, cerchi di incolpare la tecnologia per uscirne fuori da innocente. La solita assunzione di responsabilità di chi, non solo commette degli errori, ma incolpa gli altri delle conseguenze.

Il punto di confine sta nella consapevolezza: se sai quello che stai facendo, e perché, allora ogni mezzo ti può essere utile.
Altrimenti è tutta una questione di scuse, scorciatoie, deleghe di colpa.

Capirlo, insegnerebbe a tenere il telefono in un altro modo. In mano, per esempio, e non con la mano.
Fa differenza.

Ecco come la tecnologia può renderci stupidi. O migliori.

Provaci. Per davvero.

Se hai 13 anni, non pensi ai problemi della vita. O meglio: non pensi ai problemi della vita nel modo in cui ci pensano gli adulti.

Questo significa che sei abbastanza grande da non considerare più la privazione di un giocattolo come l’inizio di ogni infelicità, ma anche abbastanza piccolo per reagire, con il giusto peso, a quello che ti capita.

E’ un po’ come la fine del primo amore: tutti abbiamo vissuto quel momento in cui il mondo sembrava crollarci letteralmente addosso, con solo le nostre piccole spalle a sostenerne il peso. Non c’è più un senso, né una ragione per alzarsi dal letto e aprire le finestre.

Ecco, questo è quello che è successo a Harry Storey, un ragazzino di 13 anni del Regno Unito.

Prima cotta, prima delusione.

A quell’età non pensi che fallire sia un’opzione possibile, che la vita possa essere fatta anche di insuccessi. E, il primo impatto, è sempre una bella botta.

Succede quindi che la ragazza per cui Harry perde la testa esce con un altro. E lui, perdendola veramente la testa, decide di farla finita.
Si toglie la vita, eliminando alla radice ogni problema.

E’ una tragedia, già. Ma ci fa capire tanto di più.

Ci fa capire, per esempio, quanto l’essere umano sia allergico al dolore, al punto da preferire il taglio netto a una cura lenta e graduale.
Ci fa capire come l’impazienza sia il segno dei tempi, dove regna l’imperativo del tutto e subito.
E ci fa capire anche quanto contano i sogni nella vita.

Probabilmente un adulto vede un fallimento come una delle possibili soluzioni di un problema: può andare bene o benissimo, oppure male o malissimo.
I bambini invece, per fortuna, guardano ancora con gli occhi della pienezza, dove un risultato mancato combacia con una possibilità in meno, con una realtà che non si realizza e che non lo farà mai più.

Vero, in amore capita spesso di rifiutare o di venire rifiutati.
Ma questo non giustifica il fatto di accontentarsi di una delle possibili soluzioni. Perché la conseguenza di questo atteggiamento sono le coppie che stanno insieme per non fingere solitudine e la mancanza di un rapporto nel rapporto di coppia.

Chi vorrebbe questo? Nessuno. E allora perché il mondo è pieno di coppie così?
Una risposta può essere la mancanza di determinazione, di fiducia, di speranza.
Arrendersi al primo colpo, senza dimostrare quanto ci tieni.

Il piccolo Harry non ha ottenuto ciò che voleva con quel gesto, ma almeno si è ribellato, non ha accettato l’infelicità.
E il suo, di certo, è un gesto sbagliato, ma non ha meno colpe chi gira lo sguardo dall’altro lato, tanto “una vale l’altra”.

No.

Uno vale sé stesso.

E se tu non lotti per diventarlo, né per ottenerlo da qualcun altro, replicherai la catena di negatività che porta alla dissoluzione della coppia, con le conseguenze corna-botte-indifferenza.

Due cose bisogna tenere bene a mente però:
1) se hai intenzione di arrenderti al primo fallimento, non provarci nemmeno;
2) devi capire quando arriva il momento di rinunciare. Perché non puoi ottenere tutto ciò che vuoi.

Resistere potrebbe far nascere una grande storia d’amore.
Ma resistere troppo, potrebbe trasformarsi in reato.

Quindi bisogna farsi guidare dal cuore dell’intelligenza, o dall’intelligenza del cuore.

In entrambi i casi, però, l’unica certezza è l’amore che devi mettere alla base.
Poi passa tutto, gioie e dolori: basta saperli vedere con gli occhi giusti.
Ma, di fondo, devi amare, devi addomesticarti all’idea di praticare l’amore in ogni sua forma.

Allora non si perde.
Si vince.
Sempre.

Il tempo di una notte infinita

Se siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, allora è giusto dedurne che la nostra migliore fibra esistenziale è composta perlopiù da colpevoli speranze, e perlomeno da desideri irrealizzabili.

Nei sogni esprimiamo la nostra creatività maggiore, e quanto più ci teniamo, tanto più quel desiderio ripetuto ogni notte si allontana dall’avverarsi.
In quel caso, infatti, non avremmo più bisogno di sognarlo, ma soltanto di viverlo quotidianamente, nella vita reale e non in quella fantastica(ta) al chiaro di luna.

C’è un’espressione, molto semplice, che rende l’idea di quanto appena detto: una volta compiuta l’impresa insperata, quando la smania notturna diventa finalmente realtà, «sogniamo a occhi aperti».
Non smettiamo quindi di rivestire di una qualche potenzialità infinita quello che abbiamo ottenuto, ma questa volta lo facciamo aprendo gli occhi, prendendo con-tatto con la vita reale e provando a calare nella normalità quello che fino a qualche luna prima era solo un dolce, e traumatico, risveglio.

Impresa facile? Non proprio.

Tutto ciò che immaginiamo, infatti, assume esattamente la forma dei nostri desideri: una ragazza piena di difetti, nei viaggi notturni, può trasformare quelle sue mancanze in punti di forza; il “lavoro dei sogni” può non costare fatica se dura il tempo di qualche sbadiglio; perfino la caponata può diventare dietetica di notte.
E’ per questo che gli artisti, a qualsiasi categoria essi appartengano, preferiscono l’oscurità delle ore piccole per esprimere al meglio il loro talento: in tre parole, è più geniale.

L’unico inghippo è mantenere le promesse allo spuntar del sole.

E qui viene il bello della storia.

Se infatti sognare di notte è piuttosto semplice (istruzioni per l’uso: pensa intensamente a una cosa o persona, moltiplica per 100 i suoi pregi, disegna tutti i futuri possibili in cui andrà bene, e poi vai a letto), farlo di giorno è un po’ più complicato, ma di sicuro non ti deluderà (ti spiego il perché qualche riga più in basso).

Lettore, fermati un attimo e fatti questa domanda: «qual è quella volta in cui mi sono sentito più felice, quella in cui ho creduto di tenere il mondo in mano, quella volta che ho pensato che la vita è così bella che non me ne frega un cazzo dei minuscoli problemi che possono capitare, e improvvisamente mi sentivo il più figo del mondo?».

Alcuni penseranno a quando hanno preso in mano il loro bambino appena nato, qualche chilo di miracolo e poco più; altri a quando hanno fatto l’amore per la prima volta, con quelle lacrime così belle durante la strada di ritorno a casa da uscir fuori anche dai pori del braccio; altri ancora penseranno a quando, lasciandosi alle spalle quella brutta esperienza, hanno finalmente ricominciato, non daccapo a ciclo continuo, ma da quel momento esatto in poi, senza più ripetere gli errori commessi.

Nessuno di noi penserà a un sogno come il momento più felice della propria vita, neanche se in quelle ore eri bella come Emily Ratajkowski o avevi il conto in banca di Ronaldo.

Per meravigliarci di qualcosa dobbiamo viverlo, poterlo toccare con le mani e mordere con tutta la forza che abbiamo, altrimenti diventa come il profumo che tieni nell’armadietto del bagno: ti sta bene addosso, ma molto presto ne svanisce l’effetto.

Mantenere una promessa al mattino, anche piccola, è meglio di un “ti amo” detto per caso, o per sbronza, nel pernottamento dalla realtà.
Avrà pure un sapore afrodisiaco, ma non ci puoi costruire una capanna.

E’ per questo che sognare di giorno, come ho scritto prima, non delude, perché ha in sé tutto ciò che serve per diventare possibile.

La realtà non delude. La realtà si costruisce.
E pazienza se per farla diventare come desideri dovrai lottare contro ogni probabilità a tuo sfavore, ma la felicità si vende a prezzo di fatica.
Basta non aver paura di andare avanti, di cambiare quella cosa in cui ti trovi bene ma che non è ancora tutto ciò che puoi essere, basta insomma non accontentarsi, perché anche se le cose belle non sono difficili, questo non vuol dire che non bisogni lottare per ottenerle: chi si accontenta si sottovaluta, e invece dovrebbe lasciarsi travolgere da ciò che gli capita anche se stava cercando altro (serendipity) per essere realmente felice (altrimenti tradisce prima di tutto sé stesso, oltre che l’altro/a, perché basta anche solo quel pensiero o quel gesto che vorresti compiere, ma non fai, a rompere un meccanismo già andato).

E la spinta per farlo, paradossalmente, ci viene proprio da quei desideri notturni che da soli possono non significare nulla, ma in realtà sono il motore delle nostre azioni concrete: la vera forza sta nel trasformare quel messaggio inviato con un po’ di tremore sotto le lenzuola, nella scelta da fare domani mattina.

Solo così capirai che c’è molto di più, se scegli di rischiare per provarci: «se sognare un po’ è pericoloso, il rimedio non è sognare di meno ma sognare di più, sognare tutto il tempo», diceva Marcel Proust.

Amare qualcuno, in fondo, è già un’impresa insperata di per sé, un rischio pericolosissimo: ma veramente vogliamo stare con qualcuno che ha tutti quei difetti, quel carattere impossibile e quella tendenza continua ad annientarci? Vista così, la risposta è ovviamente no. Ma il trucco sta nel condividere. Nel pensare che anche quella cosa schifosa di lui/lei, in realtà è unicamente nostra. E nel credere che qualsiasi cosa che non sia come te l’aspettavi, non deve essere per forza un difetto (il cui significato proprio è mancanza), ma si tratta semplicemente di qualcosa di diverso. E si può stare insieme sia con qualcuno con cui condividi tutto e che ti capisce al volo, sia con qualcuno che ti rapisce al volo e con cui l’unica cosa in comune è la voglia reciproca che continui a essere così, più del massimo, il motivo in più per cui ti svegli felice.
Perché l’amore è una scelta, basta volerlo. E l’unica ricetta possibile è la presa mentale, il generatore di corrente del desiderio, pronto ad accendersi solo con qualcuno che quando parla ti faccia venir voglia di ascoltare.

«Fai bei sogni. Anzi, fateli insieme. Insieme valgono di più» dice il mio amico Gramellini.

La vita è quel posto bellissimo dove smetti di sognare a occhi chiusi e continui a farlo nella vita reale.
Perché sebbene della frase che ho messo all’inizio tutti ricordano solo la prima parte, lui l’aveva scritta così: “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” (W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena I).

Buon sogno a tutti, e che duri il più a lungo possibile: il tempo di una notte infinita.

In libertà

Scrivere qualcosa su Noa è già difficile di per sé, figurarsi scrivere qualcosa di intelligente in proposito: incappare nei tranelli della coscienza sociale è la risposta più immediata per mancanza di riferimenti pratici. Quindi, questo non sarà l’intento dell’articolo.

Piuttosto, l’aspetto sul quale voglio concentrarmi è un altro.
Un suo amico ha dichiarato che, prima di morire, «parlava con un filo di voce, sorrideva mestamente, era serena. Il dolore psicologico può essere più feroce di quello fisico. Il suo è stato insopportabile. Mi ha dato l’idea di essere molto serena al pensiero che di lì a poco sarebbero cessate le sue sofferenze».

Desiderare di morire, per non soffrire più.

Immagino che per la ragazza questa dovesse essere l’unica risposta possibile, altrimenti non avrebbe deciso di farla finita.
Nella sua visione della vita, non c’era un’alternativa.
Fine, e basta.

I traumi hanno come conseguenza o la negazione dell’evento, o la trasformazione in seguito a esso, scontando per la vita colpe precedenti. Quasi mai una svolta positiva.
Noi però possiamo essere l’alternativa di successo per qualcun altro, la scelta fra “come sono diventato” e “come posso diventare”, a patto però di non pretendere l’alternativa di noi stessi, altrimenti il primo passo diventa già l’ultimo.

Se per Schopenhauer la vita è sofferenza, agli esseri umani basta circondarsi di anticorpi naturali, quali il successo, la fortuna, la famiglia, per anestetizzare il dolore e sopravvivervi.

Ma non tutti riescono ad aggrapparsi ad una forza capace di dare una spinta maggiore di quella negativa generata dalle insoddisfazioni, da un passato colpevole, dall’essere costantemente una vittima.

Le vittime non vanno giudicate, né comprese.
Le vittime vanno osservate, come il silenzio che accompagna un lutto inaspettato, per capirci di più.
Vi capita mai di ripensare alle cose a cui tenete, quando avete paura? Di voler parlare con qualcuno che non sentite da tempo, quando sentite di una tragedia accaduta vicino a voi? Di fare quella pazzia che avete sempre sognato, quando avete la sensazione che potreste non farla più?

Capirci di più significa legarsi alle cose più forti.
E minore è la possibilità di realizzarle, più le desideriamo.

C’è stato un ragazzo che, un mese dopo la morte della fidanzata, è andato nello stesso ospedale dove era morta lei, gettandosi dalle scale dopo aver gridato «ti amo, ti sto per raggiungere».

Era forse debole?
Possiamo dire che Noa era una ragazza debole?

Forse sì, ma scegliere di morire gli sarà costato tanto: pensate un momento prima di cadere nel vuoto, la paura che doveva stringere la gola del ragazzo; o il fremito di Noa quando ha capito che stava finendo.
Non credo che possiamo definirle scelte da deboli, sicuramente hanno avuto coraggio, anche magari scappando dalla vita.

A noi non resta che rispettare, forse anche compatire oppure invece disprezzare scelte del genere.

Nessuno può essere certo di fare la cosa giusta, però c’è un metodo per farle in maniera migliore:

  • vuoi imparare a scrivere? Scrivi
  • vuoi imparare a nuotare? Nuota
  • vuoi imparare a vivere? Vivi.

Il resto, verrà da sé.

Rider Gap

Per descrivere la recente protesta dei rider, potremmo usare una parola sola: Arpagone.

Chi era Arpagone? Il protagonista della commedia di Molière, L’Avaro, talmente concentrato sui propri guadagni da perdere di vista il valore dei sentimenti, e con esso l’amore per la giovane Marianna.

Ora, da quanto in nostro possesso, non ci risulta che i rider amino Icardi, Fedez, o Albertino. Ma i loro soldi sì.
E fin qui non c’è nulla di “sbagliato”: il consumismo ha dotato la nostra società di un settimo senso (se sei ne contiamo finora), quello dell’incasso a mano aperta, talmente grande da riversarlo subito sul prossimo acquisto.

E sì che di mance non si vive, ma di sicuro si spende. Così come, sembra, sia stato speso il limite del buon senso in questa vicenda.

La mancia è dovuta? «No».
La mancia è gradita? «Sì».

Ma le due cose non sono collegate.

Scambiare la generosità di qualcuno con una pretesa, finirà per estinguere il gentile (e soprattutto spontaneo) credito di bontà aggiuntiva di chi già paga un servizio.
Perché ricordiamoci che chiunque dà una mancia, lo fa dopo aver già pagato il costo di quanto dovuto.

E’ vero, per un milionario come Cannavaro, qualche euro in più o in meno non fa la differenza, ma così passa un messaggio sbagliato: l’economia circolare dei punti di vista, dove non c’è sosta per il reddito.

Chi è ricco non è scemo, e chi è povero non deve esserlo anche di spirito.
Avete mai visto un mendicante la domenica fuori dalla chiesa, urlare contro e indicare col dito quelli che non gli avevano volontariamente offerto qualche moneta?

No. Però “siccome tu ne hai più di me, me li devi dare”.
In caso contrario, si finisce nella lista di proscrizione moderna, dove invece di confiscare i beni, si confisca la dignità.

Un ragionamento pitocco, segno del bonifico scoperto che abbiamo intestato alla nostra gentilezza.

Un dono è una concessione disinteressata. Altrimenti si trasforma in una tassa, e di tasse non è mai stato amato nessuno.

Scommettiamo una manciata di euro che, al prossimo giro, anche quelli più generosi si tireranno indietro?

Bel colpo a porta vuota.
La propria, però.

Ora lo sanno tutti

Il 9 Aprile 2019, Ignazio Marino è stato assolto dalla Cassazione in via definitiva perché «il fatto non sussiste».

Di che fatto parlano, i giudici? Durante i 28 mesi nel corso dei quali è stato Sindaco di Roma (poi vi spiegherò perché così pochi), Marino ha utilizzato in totale 20 mila euro per spese di rappresentanza: si tratta di cene, incontri e altri pagamenti effettuati con la carta di credito del Comune.

Alcuni esponenti di Fratelli d’Italia e del Movimento 5 Stelle presentano allora una serie di esposti su una parte di quelle spese (circa un migliaio di euro) considerate illegittime, dando inizio a quello che verrà ricordato come “il caso scontrini“: la procura di Roma decide di aprire un’inchiesta, che si concluderà appunto con l’assoluzione piena dello scorso 9 Aprile.

Marino quindi è innocente, non ha utilizzato soldi pubblici a fini privati, ma semmai il contrario.
Proprio così: l’ex Sindaco, per dare un segnale della propria onestà, decide di restituire di tasca propria tutti i 20 mila euro spesi per rappresentanza, e donarli alla città di Roma.
Un gesto, per chi la riconoscesse ancora, di pura nobiltà, specialmente se pensate che una parte di essi, per l’esattezza 3.540 €, erano stati utilizzati per ospitare il magnate russo-uzbeko Alisher Usmanov, che grazie all’incontro con Marino decise di spendere 2 milioni per la città di Roma, permettendo così di restaurare la sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio.

Quindi, conti alla mano: Marino aveva la colpa di aver speso 3.540 € a fronte di un introito di 2 milioni di euro.
Nemmeno il peggior ragioniere potrebbe fingere di non avvedersi del guadagno ottenuto.

Eppure, nonostante i numeri parlino chiaro, e nonostante abbia interamente ridato i soldi indietro alla città di Roma, Marino rappresentava un problema per il suo partito, quel PD di cui tanto si era fidato durante la campagna elettorale (e oltre), e che alla fine gli ha voltato le spalle come il peggior nemico.

Già, perché i vertici nazionali del Partito Democratico, il suo partito, ordinarono ai propri consiglieri comunali di firmare in massa le proprie dimissioni davanti a un notaio, comportando di conseguenza la decadenza della Giunta.

Marino in quell’occasione parlò di mandanti, di essere stato accoltellato: e in effetti la vicenda ricorda molto quella delle Idi di Marzo, quando Giulio Cesare venne ucciso dal pugnale amico, dai suoi senatori e perfino dal figlio avuto con un’amante.

L’unica differenza, oltre a titoli e contesti storici, fu che i senatori di allora utilizzarono l’aula democratica come luogo del delitto, quelli di adesso lo studio di un notaio, tanto per rendere l’idea della “morte della democrazia” appena compiuta.

30 il giorno di Ottobre del 2015 in cui avvennero le dimissioni.
28 i mesi di Sindacatura di Marino.
26 i consiglieri comunali dimissionari.

Uno scarto perenne di 2, 2 come i milioni donati alla città di Roma dall’imprenditore Usmanov.

Durante la cerimonia di inaugurazione della riapertura della Sala degli Orazi e Curiazi, finanziata come detto grazie alla cena tra Marino e l’imprenditore russo, il nuovo Sindaco di Roma, Virginia Raggi, dimenticò però di ringraziare proprio colui che aveva favorito questo mecenatismo, prendendosi meriti non suoi.

Ovviamente, è stato più facile parlare di Marino in altre occasioni, come quando nel 2014 la Raggi si presentò con le arance in Campidoglio per chiedere le dimissioni di Marino causa Mafia Capitale.

Cosa c’entrasse Marino con una vicenda esplosa temporalmente alla ribalta durante il suo mandato, ma figlia di taciti e pluriennali accordi ereditati nel tempo tra malaffare e politica, non si capisce. Tanto più che egli è stato anzi capace di denunciare e affrontare con una relazione inviata all’allora Prefetto Gabrielli l’opacità di alcuni metodi di gestione della cosa pubblica, di contratti e bilanci approvati in ritardo, tanto da far dire a Matteo Renzi (a quei tempi ancora gli rispondeva al telefono) «vai sempre in tv, sei la faccia pulita del partito».

Fatto sta che, fra i lancillotti dell’onestà di allora, c’era anche Marcello De Vito, successivamente eletto Presidente del Consiglio Comunale di Roma e arrestato il 20 Marzo 2019 con l’accusa di corruzione.
Come dire, scagli la prima arancia chi è senza reato.

Ma torniamo a Marino.

Durante il suo mandato, checché ne pensino i fautori della sua cacciata dal Campidoglio, è riuscito in numerose piccoli grandi imprese:

  • ha chiuso la più grande discarica del pianeta, Malagrotta, gestita dall’avvocato Cerroni che per 40 anni è stato “il supremo” nella gestione dei rifiuti della Capitale (valore annuale di quasi 1 miliardo di euro);
  • ha pedonalizzato i Fori imperiali, restituendo ai cittadini la libera e completa fruizione di una parte simbolo della città, come avviene in tutti i luoghi rappresentativi delle varie capitali europee;
  • ha eliminato i camion bar dal centro storico, proseguendo nell’opera di riqualificazione urbana al centro del suo programma politico, e ponendo fine alla svendita di suolo pubblico (3 euro al giorno per 2-3 mila euro di fatturato quotidiano);
  • ha introdotto il merito come requisito fondamentale nella scelta delle persone alla guida delle aziende municipalizzate, valutando i vertici da scegliere in base al loro curriculum e non alla fedeltà politica (si pensi a Catia Tomasetti in Acea);
  • ha aperto la terza linea della metropolitana della città, la Linea C;
  • ha preteso la demolizione degli stabilimenti balneari abusivi a Ostia che impedivano il libero accesso al mare ai bagnanti, festeggiando in quell’occasione la vittoria dello Stato sul malaffare;
  • ha promosso la rievocazione storica delle glorie dell’impero attraverso lo spettacolo “Viaggi nell’antica Roma” ai Fori imperiali, con la voce narrante di Piero Angela.

Eppure, di Marino si preferisce il racconto degli scontrini, o della Panda rossa. Ecco, volete saperla questa?

A Marino venne contestato di attraversare la zona Ztl della città senza il dovuto permesso.
Premesso che, a fare notizia, dovrebbe essere il fatto che in Italia un politico usi la macchina rossa (privata, pagata da lui) invece di quella blu (pubblica, pagata da tutti), fatto sta che Marino finì nell’occhio del ciclone perché non aveva il permesso Ztl.
Ma secondo voi, è possibile che il Sindaco della Capitale non abbia il permesso?
Infatti, no. Il permesso ce l’aveva eccome, solo che un hacker si era introdotto nel sistema informatico del Comune, falsificando i dati e quindi facendo registrare le multe al Sindaco.
Tutto ciò ha finito per fare più scalpore rispetto al reato commesso da qualcuno ai danni del primo cittadino della Capitale, perché si è preferito il titolo alla narrazione dei fatti.

Ma purtroppo, la riconoscenza non è patrimonio di tutti.

Come quelli che, ancora oggi, ad assoluzione avvenuta, si guardano bene dal chiedere scusa a Marino, perché a detta loro era inadeguato e aveva perso il contatto con la città, sperando in una rapida damnatio memoriae a loro giustificazione.

Lo andassero a spiegare ai 5 mila romani e romane che hanno affollato Piazza del Campidoglio per urlargli di «non mollare» prima delle dimissioni, come racconta il film Roma Golpe Capitale, regia di Francesco Cordio per Own Air Srl.

Eppure, dall’alto è partito l’ordine della ritirata, e così si è conclusa l’avventura di Marino, il Marziano venuto a portare la normalità nella città meno “normale” del mondo.

Resta un forte senso di incompiuto, e anche di ingiustizia per tutto quanto subito da lui, e da tutti.

Un chirurgo di fama mondiale con oltre 650 trapianti compiuti, 726 pubblicazioni nelle più rinomate riviste scientifiche di Medicina e Chirurgia dei Trapianti, membro di 27 società scientifiche, fondatore di 4, insignito di 59 premi e riconoscimenti pubblici.

Senior Vice President alla Thomas Jefferson University di Philadelphia, professore di chirurgia, ex senatore (ha rimesso l’incarico quando ha deciso di candidarsi a Sindaco e prima di avere la certezza di diventarlo), come Presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale è riuscito nell’impresa di far chiudere gli ospedali psichiatrici, permettendo, fra l’altro, di desecretare tutti i documenti delle audizioni relative a Stefano Cucchi come ultimo atto da Presidente, affinché fossero messi a disposizione della famiglia nella loro ricerca di giustizia.

Un Sindaco, Marino, che andava in giro in bicicletta e zaino in spalla, così diverso da tutto il resto da risultare un “nemico” ai suoi stessi compagni di partito, incapace di cedere alle manovre superiori, e per questo da cacciare a tutti i costi.

Oggi è il rimpianto di tanti, in special modo dei suoi cittadini, quelli che continuano a inondarlo di affetto e a ricordargli i bei tempi vissuti insieme.

Il bene, infatti, non si dimentica, neanche se è stato falciato un momento prima della spigatura.

Pazienza se qualcuno non avrà la capacità di chiedergli «scusa»; ciò che conta è la quantità di «grazie» ricevuti.

Personalmente non credo servano altri attestati di merito, uniti al ricordo di una brava persona che sicuramente poteva fare di più, ma che ha dato tutto ciò che aveva per fare del suo meglio.

Ieri ormai è passato, non serve rimpiangerlo.

Concentriamoci sul presente, perché il futuro non è nostro se non iniziamo a costruirlo da ora.

Grazie a te, Ignazio, sapremo come fare.

A testa in giù. Ma sul telefono

C’è qualcosa di interessante nello scambio di tweet fra Jim Carrey e Alessandra Mussolini.
Lui riporta un fatto di storia, citando la fine che ha fatto il fascismo.
Lei riporta un fatto di ora, perpetrando il malcostume hater del narcisismo da tastiera.

Senza star qui a dire chi abbia torto o ragione (immagino non debba essere bello neanche per lei vedere la vignetta del proprio nonno a testa in giù), mi colpisce più di tutto l’immediatezza dei social.

Quando mai, con tutto il rispetto, la Mussolini avrebbe interagito con Jim Carrey?

E lo stesso vale per noi: commentiamo Verdone, ci facciamo i cazzi dei Ferragnez, insultiamo il politico opposto al nostro, semplicemente perché la prossimità dell’era digitale ci fa sentire amici di tutti, dallo zio Gerry alla zia Anna (Moroni, chi altro).

Chi diventa famoso, accetta anche la vulnerabilità sociale: tutti ti conoscono, e chiunque ti dirà qualcosa. Ma a che prezzo?

Il rischio è quello che, continuando così, non solo possiamo entrare in contatto con qualsiasi specie umana, ma non avremo più con chi parlare nella realtà, dato che siamo tutti immersi nel periodo “ipotetico” dell’irrealtà.

Perché farsi i cazzi degli altri è ormai diventato un obbligo: devo dirti con chi sono, che sto facendo, e quanto mi sto divertendo non perché tu lo veda, ma perché io mi senta migliore di te.

La storia non è più magistra vitae, ma un frenetico cronometro da aggiornare su Instagram ogni volta che ci sembra esserci un motivo valido per vantarsi, col conto alla rovescia puntato sulla prossima puntata della nostra schizofrenia sociale a cielo aperto.

Per di più, ognuno rimane fermo nelle sue convinzioni, senza provare a utilizzare i post degli altri come un contributo alla diversità delle opinioni, ma solo un appiglio per dimostrare la validità delle proprie.

Se solo social equivalesse a una tendenza al miglioramento delle condizioni di vita e alla prossimità con gli altri esseri umani, esserlo avrebbe ancora un significato profondo nella società di oggi.
Altrimenti il rischio diventa quello di dirlo soltanto a parole, tweet e stories, configurando in realtà l’epoca meno social di sempre, intrisa di un narcisismo vincolato allo sfoggio di capi fuori di moda.

Prenderne consapevolezza sarebbe molto utile, senza considerare altrimenti il pericolo scampato di ricevere un tweet da qualcuno che non ci aspetteremmo.

Vero, Jim?

Specchio riflesso

Non c’è un motivo per uccidere qualcuno, niente che possa giustificare la fine della vita di una persona.

Finora abbiamo sentito parlare di omicidi compiuti per odio, per gelosia, per onore (come se eliminare la causa della vergogna ristabilisca un ordine inverso alle cose, invece che disonorarle ancora di più).

Ora possiamo aggiungere però un’altra descrizione: l’omicidio per svago, un passatempo dei giorni peggiori.

L’ho ucciso perché fra i tanti mi sembrava felice”.

Questa è stata la confessione di Said, il motivo che l’ha portato a uccidere Stefano Leo lo scorso 23 Febbraio, a Torino.

C’era un motivo? «No».

Non c’è mai un motivo, infatti. Men che meno questa parvenza di disumanità.

L’ho ucciso perché aveva un’aria felice. Io volevo ammazzare un ragazzo come me , togliergli tutte le promesse che aveva, toglierlo ai suoi figli e ai suoi parenti e togliergli tutte le promesse di felicità. E’ passato un ragazzo, gli sono andato dietro e l’ho accoltellato”.

Di che cosa è effetto questo omicidio?

Non è invidia, perché si desidera ciò che non si ha, mentre la felicità è a portata di tutti.
Non è rancore, perché Said aspettava qualcuno che nemmeno conosceva.
Non è inferiorità, perché non c’era niente a misurare la loro distanza.

Commettere reati è diventato un hobby, qualcosa da fare in assenza di altro, riunirsi in cerchio a picchiare un ragazzino, rubare l’identità a chi se n’è costruita una diversa dalla nostra, vergare di rosso la specie che siamo diventati.

Dietro il gesto di Said c’è questo, la consapevolezza che io non posso somigliarti, io non sono come te e quindi provo a somigliarti, ma non ci riesco. Mi faccio i tuoi cazzi sui social, li imito, mi sento figo quando posto una foto di quello che fai tu, di dove sei stato tu. Ma nemmeno così riesco a somigliarti. E se tu sei diverso da me, sei contro di me.

Chi l’ha detto questo? I cori da stadio, i politici in tv, i fanatici para-religiosi?

Ci ritroviamo in una specie di adattamento darwiniano inverso, dove invece che adattarci al meglio che abbiamo, rigurgitiamo il peggio che possediamo, eliminando ogni forma di confronto.

Ci vorrebbe un metro sociale per capire la distanza che le nostre azioni hanno dalle nostre migliori intenzioni, che abitano in noi, ma in un posto tanto cantinato da aver perso la strada di ritorno.

Non è, questo, un segno del tempo però: anche i primitivi si uccidevano a colpi di clava quando qualcun altro si avvedeva dell’esistenza di un suo simile.
Ma proprio qui sta il punto: non riconosciamo negli altri qualcuno che ci assomigli.
Ci categorizziamo per forme opposte: bianco/nero, cristiano/musulmano, etero/gay, amico/nemico, senza considerare nell’altro un’opportunità al mio sviluppo.

Se ci fosse un perché sarebbe grave, accerterebbe la sua scientificità.
Io mi concentrerei sul quando invece, quando ci siamo comportati anche noi così, e quando insegneremo a qualcuno a non farlo più.

Penso sia la strada migliore.
Un po’ in salita, ma con un panorama mozzafiato. E la immagino come un Genodrome reale. Che alla fine, sempre di Darwin si tratta. Ma almeno, ci diamo la mano l’un l’altro, tutti concorrenti, dallo stesso lato.
Il nostro.

Al-Domani che aspettava

Questo video mi ha commosso. Tanto.

Ci sono persone che ho conosciuto, anche solo per pochi minuti, legate fra loro da quella solidarietà che si innesca quando tutto ciò che puoi dare al tuo prossimo, è tutto ciò che hai.
C’è il signore delle penne, il palermitano di colore a cui ho dato una bottiglia d’acqua pochi giorni fa, il fotografo che ho conosciuto per caso.
C’è anche il Sindaco Orlando, commosso a portare sulle spalle, per tutti i palermitani di questa città, un uomo buono.

Non ho mai conosciuto Aldo però. Forse l’avrò visto di sfuggita qualche volta, proprio lì fra quei portici incrostati della sua tenerezza.

Aldo girava il mondo, e ha smesso di farlo a Palermo.
È morto per 25 euro. 25 come il primo quarto di un percorso.
Però è vissuto per una vita intera, la cui sofferenza più grande non era quella di dormire per strada, quanto quella di vivere in un letto, al caldo intossicante di un’esistenza comoda, ma priva di qualsiasi ammezzato con vista sul reale.

Aldo ci lascia, a tutti, il significato di quanto si può guadagnare con un sorriso: nessun patrimonio che non valga la pena di essere consumato.

Impariamo da lui, per vincere la violenza senza un tetto di senso che ha, bruscamente, interrotto il suo sogno.

Ps: Piazzale Ungheria non mi è mai piaciuto come nome. Chissà che Aldo non ci faccia anche sto favore…

aldo-helios