Poltrone e giufà

Ricostruzione plastica del valore della poltrona in politica: vieni eletto, vai in Parlamento, ti abitui al potere (non in senso di servire, ma proprio al potere) e smetti di avere cognizione della realtà.

Accade che i deputati si ricordino di festeggiare il 75° anniversario della Costituzione e invitano un grande Maestro a cantare. E infatti cosa può fare Bocelli alla Camera se non cantare l’inno? Eppure, molti di loro avranno pensato che forse era lì di passaggio, fra una Caracalla e un’altra. Infatti tutti si alzano in piedi al suo arrivo per tributargli un giusto applauso (al netto della Boldrini che in prima fila avrà pensato di non essere vista) per poi sedersi subito dopo avergli scrosciato qualche battito di mano, senza capire il reale motivo per cui dovevano rimanere lì, e cioè l’esecuzione dell’inno.

Così si rialzano di nuovo immediatamente dopo, generando un rumore di sedie che disturba il suono delle istituzioni, come quello del Presidente della Repubblica che, lui no, non era lì per caso. Infatti Mattarella rimane sempre in piedi, fino alla fine dell’inno, spiccando sempre anche senza far nulla.

Non è più come una volta: prima, chi andava a Roma la perdeva la poltrona. Ora, non la molla più, nemmeno il tempo di un batter … d’occhio.

Minuto 3:45

Due ruote is lo stesso che quattro

Il monopattino, da risorsa green ed antitraffico, sta diventando un problema.

Tutte le maggiori città italiane sono ormai invase da questi mezzi a due ruote capaci di sfrecciare a ogni lato della carreggiata in assenza di qualsiasi elementare rispetto del codice della strada.
Ma dov’è la novità?

Quando si ha la fortuna di fare qualche chilometro senza rimanere bloccati per via del traffico, si è costeggiati da esseri umani che si inclinano avanti e indietro per muoversi, monoruote che hanno pedali talmente piccoli da poter essere usati fino al 42 di piede, biciclettine elettriche e silenziose che ti sfrecciano accanto senza nemmeno avvisarti con il rombo di una turbina in movimento.

Forse è strano leggere che questi monopattini arrivano a 100 km/h e vanno pure in autostrada, per non parlare di quelli che li parcheggiano ovunque.

In fondo però non c’è molto da stupirsi, in strada si replicano gli stessi comportamenti tenuti nella vita sociale: ergo, chi è stronzo nella vita di ogni giorno, lo è anche al volante, o sopra un monopattino. La sostanza, che guidi seduto o in piedi, non cambia.

Se un cittadino parcheggia la macchina in tripla fila oppure nei posti dei disabili senza crearsi problemi, figurarsi se non fa la stessa cosa con un mezzo molto più piccolo e meno ingombrante come un monopattino.

Probabilmente l’illusione è stata quella di associare a mezzi più smart persone più intelligenti.
Ma, come è noto, l’uomo si fortifica nelle sue certezze.

Nulla di nuovo, sotto il casco.

Spoiler, no grazie

Dedicato a tutti quelli che hanno la visto la Casa di Carta.
E hanno spoilerato.

In tanti si sono divertiti in questi giorni pubblicando storie e fotografie con i nomi di alcuni personaggi della Casa di Carta.
Perché? Semplice: per anticipare, (in gergo, spoilerare) a chi non l’avesse ancora vista tutta, i personaggi che sarebbero morti nella 4° stagione della serie.

Ma qual è il motivo?

Innanzitutto, la Casa di Carta non è un gioco di sopravvivenza, dove conta chi resta vivo.
Il suo successo lo si deve a un mix di adrenalina, incertezza, suspense continua, passione.
Traduco: se mi dici chi muore, non mi hai rovinato proprio niente.

Chi si affretta a guardare una serie tv tutta d’un fiato, per poi essere il/la primo/a a scrivere sui social come va a finire, rovinando la sorpresa a chi ancora se la sta gustando lentamente, non si rende conto di due cose, molto ma molto importanti.

La prima.
La corsa a finire una serie tv in poche ore rovina il gusto della continuità.
Nell’epoca del consumismo, in cui si vuole tutto e subito, questo dimostra una mancanza di desiderio, per cui tutto rimane uguale a sé stesso. Finito un prodotto, una serie tv, un libro, se ne cerca subito un altro per cercare di colmare il vuoto di senso rappresentato dalla riflessione.
Detto in altre parole: se il tuo obiettivo è finire la Casa di Carta prima di me così me la spoileri, il risultato è che tu l’hai vista in maniera strumentale, con lo scopo di rovinarmi la visione; io la vedo solo perché mi piace vederla. Penso abbia più senso. Di conseguenza, ti sei fatto un torto da solo.

Il godimento va prolungato, non abortito.

Andiamo alla seconda, che possiamo includere nello “spoilerare per non essere spoilerati“.
Il vezzo di chi spoilera si può nascondere in alcuni motivi diversi fra loro: può essere un trauma precedente (qualcuno che ti ha rovinato una serie e tu ti vendichi); può essere paura che qualcuno ti anticipi il finale, quindi una volta al sicuro ti senti libero di scriverne senza timore di rivelazioni altrui; oppure ancora, semplicemente stupidità (l’opzione da me preferita).
Mi spiego: tu credi che, solo perché mi hai detto chi muore, io non la guardo? Credi che sapere quale personaggio della banda viene ucciso mi potrebbe far desistere dal provare l’emozione di vedere io stesso il suo omicidio?

Se pensi che basti scrivere un nome per rovinarmi una serie tv, allora dovresti anche raccontarmi come succede, perché si arriva a questo, come mai proprio quel personaggio muore e non un altro, cosa è successo prima, cosa succederà dopo; dovresti farmi provare la stessa adrenalina come se la stessi vedendo in tv, dovresti creare quella suspense su cui si fonda il successo della serie.
Insomma, per rovinarmi davvero il finale, dovresti farmi vedere proprio quell’episodio per intero. E quindi il tuo spoiler diventa inutile, non serve a nulla, se non a dimostrare quanto l’illusione di farmi un torto.

Io credo che abbiano inventato le Instagram stories o i tweet per motivi ben diversi che per spoilerare le serie tv.
Ma, come sempre, l’uomo riesce a dimostrare un uso alternativo e violento in ogni cosa.
Perché, di fondo, e anche se non ci riesci, il tuo unico fine di spoilerarmi una serie tv è per fare un danno a me e per divertirti tu.

Un po’ la logica del circo.

E’ solo che, non rovinandomi nulla, l’unico risultato che ottieni è quello di esserti sprecato l’occasione di guardarti una serie tv per te stesso, invece che per me.

Questa è la vera figata.
Ma anche la realtà è on demand: solo per chi vuole vederla.

S I E O. Chi lo capisce non spoilera…

Manovre culturali

Venerdì 8 Novembre, Palermo.

Un tizio apre lo sportello del furgone senza guardare chi viene alla sua destra.
Il malcapitato è colui che scrive, che si ritrova improvvisamente con uno specchietto della macchina semifunzionante.

Adirato per l’accaduto, mi rivolgo al tizio del furgone con parole come “che cazzo fai” e un altro paio di similitudini varie.

Dopo aver sfogato le mie lamentele, il tizio mi riprende gridandomi due cose:
1) “ora baaa!!! Già m’ha rittu 3 paruoli”, come se la colpa fosse la mia di lasciarmi scappare qualche parola di troppo (a lui comunque familiare) e non la sua di aprire uno sportello senza guardare;
2) “quando mi stricano la macchina a me io mica fazzu accussì”, riducendo quindi i sinistri stradali a una consuetudine per cui non è necessario infervorarsi.

Detto che comunque uno specchietto non vale una lite, mi è sembrato a quel punto di parlare con qualcuno simile a un essere umano solo perché cammina su due zampe invece di quattro.
La sua strategia difensiva verteva essenzialmente sull’alzare la voce e sul rigirare la colpa su di me, come se avessi dovuto essere io a chiedere scusa a lui per aver detto qualche parolaccia o per essermela presa.

Sarebbe bastato un “scusi, spero non sia successo nulla” per impedire a me di comportarmi da cretino (chi si arrabbia per uno specchietto, specie di fronte a uno sconosciuto malintenzionato, è un cretino. Patentato, ovviamente) e a lui di passare per un incivile qualunque.

Perché in fondo, ciò che lo accomuna agli esseri umani (oltre il bipedismo, chiaramente) è il rifuggire dalle proprie responsabilità.

Anche noi ci comportiamo così un sacco di volte: in una relazione, a scuola o con i genitori, le nostre mancanze non sono mai un’ammissione di colpa, ma diventano sempre il riflesso di errori non corrisposti attraverso lo specchietto delle proprie fragilità.

Invece di dire “tu non mi capisci”, “mi stai chiedendo troppo” o “sei troppo distante con me”, magari la soluzione sarebbe chiedersi “dove sto sbagliando”, o semplicemente accettare di non farcela e non vergognarsi per questo, senza stupide scuse o frasi che nemmeno i bambini pronunciano più.

Ecco perché nella vita si impara sempre.
Perché a volte basta un coglione qualsiasi (pardon, le parolacce no) per ricordarti chi non devi essere.

Vista così, può sembrare perfino una bella storia.
Ma solo perché il mio specchietto funziona come prima…

I sogni sono di ieri

C’è un articolo di Radio 105, che riporta una ricerca dell’Agenzia di Comunicazione Klaus Davi & Co., che a sua volta ha condotto una ricerca sulle ambizioni di lavoro dei giovani fra 18 e 25 anni.

Morale della favola: il 71% dichiara di voler fare l’influencer, il 48% il fashion blogger, e poi lo stilista, lo chef e così via.

In pratica, nessuno ambisce più a un lavoro manuale, ma la maggior parte sogna un lavoro da imitare.
Proprio così: sebbene il primo commento che vi viene guardando la classifica sia “vi meritate l’influenza“, in realtà avete ragione, ma non solo. Quei dati, infatti, nascondono molto di più. Proviamo a capire cosa.

L’influencer o il fashion blogger rappresentano la chimera di tutti i lavori desiderabili: hai vestiti firmati, macchine nuove, telefoni di ultima generazione, insomma tutti i prodotti che desideri ad un’unica condizione: aggratis.

Figo, vero?

I criticoni diranno che, oltre ad essere un’utopia, è anche diseducativo, non rende merito ai sacrifici, non è un vero lavoro.
Spiegatemi però la differenza fra sognare di diventare Chiara Ferragni e sognare di diventare Bobo Vieri, o Brad Pitt.

Il desiderio di oggi, vincolato ai social media, trova un pronto riflesso nel desiderio dei meno giovani di ieri di diventare un calciatore famoso, o una star di Hollywood.
Oggi, quella famosità a costo zero, ma a guadagno mille, è pubblicizzata da Instagram o YouTube.

Le cose, quindi, non sono molto diverse.
E’ solo che oggi conta tantissimo come ci vedono gli altri: quando condividiamo qualcosa sui social, lo facciamo per desiderio di riproduzione, per avere un seguito capace di darci dignità, sicurezza e per sentirci piccole star anche noi.
Tu che leggi, facci caso: non pubblicheresti mai una storia se avessi 0 follower, se nessuno potesse vedere ciò che pubblichi. Tanto varrebbe tenerla sul rullino.

Da generazione in generazione, il sogno/ambizione di lavoro è sempre stato quello di fare qualcosa che ti piace, e che ti permetta di guadagnare anche un sacco di soldi.

Quindi: perché criticare chi ha questa sacrosanta ambizione?

Il problema, semmai, è un altro: non puoi pretendere che Giambattista Valli disegni un vestito apposta per te se non hai l’indomabile attrazione fatale di Kendall Jenner (mi astengo da ulteriori commenti sull’immensità seduttiva della piccola Kardashian), o che la Wind ti chiami a promuovere una nuova offerta telefonica se non hai nemmeno un centesimo della simpatia di Fiorello.

Se vuoi influenzare qualcuno, devi possederne i mezzi, per natura o per bravura, e devi avere un’idea di chi vuoi essere e di cosa vuoi fare.
Altrimenti, non sarai capace di fare bene nemmeno un lavoro manuale come il meccanico.

C’è poi un altro piccolo particolare: a quei giovani è stato chiesto qual è il loro lavoro dei sogni, no cosa stanno lottando per diventare.
Magari, sognando di diventare il Montemagno della cosmetica, una ragazza nel frattempo si sta facendo il mazzo per essere un bravo avvocato, oppure un giovane studente che si è appena laureato in Marketing, nel mentre sogna di cantare come Ultimo all’Olimpico.

L’importante è sapere quanto vali: se pensi di valere tanto, dimostralo, e ci arriverai.

Perché il cerchio della vita, da sempre, si chiude sostituendo il destino con la propria volontà: dipende da te, quello che succederà.
E i sogni di oggi non sono molto diversi da quelli di ieri: si tratta pur sempre di desideri, strappati dal cielo di stelle per essere trasformarti in star sulla terra.

E tu ci credi, rockstar?

A testa in giù. Ma sul telefono

C’è qualcosa di interessante nello scambio di tweet fra Jim Carrey e Alessandra Mussolini.
Lui riporta un fatto di storia, citando la fine che ha fatto il fascismo.
Lei riporta un fatto di ora, perpetrando il malcostume hater del narcisismo da tastiera.

Senza star qui a dire chi abbia torto o ragione (immagino non debba essere bello neanche per lei vedere la vignetta del proprio nonno a testa in giù), mi colpisce più di tutto l’immediatezza dei social.

Quando mai, con tutto il rispetto, la Mussolini avrebbe interagito con Jim Carrey?

E lo stesso vale per noi: commentiamo Verdone, ci facciamo i cazzi dei Ferragnez, insultiamo il politico opposto al nostro, semplicemente perché la prossimità dell’era digitale ci fa sentire amici di tutti, dallo zio Gerry alla zia Anna (Moroni, chi altro).

Chi diventa famoso, accetta anche la vulnerabilità sociale: tutti ti conoscono, e chiunque ti dirà qualcosa. Ma a che prezzo?

Il rischio è quello che, continuando così, non solo possiamo entrare in contatto con qualsiasi specie umana, ma non avremo più con chi parlare nella realtà, dato che siamo tutti immersi nel periodo “ipotetico” dell’irrealtà.

Perché farsi i cazzi degli altri è ormai diventato un obbligo: devo dirti con chi sono, che sto facendo, e quanto mi sto divertendo non perché tu lo veda, ma perché io mi senta migliore di te.

La storia non è più magistra vitae, ma un frenetico cronometro da aggiornare su Instagram ogni volta che ci sembra esserci un motivo valido per vantarsi, col conto alla rovescia puntato sulla prossima puntata della nostra schizofrenia sociale a cielo aperto.

Per di più, ognuno rimane fermo nelle sue convinzioni, senza provare a utilizzare i post degli altri come un contributo alla diversità delle opinioni, ma solo un appiglio per dimostrare la validità delle proprie.

Se solo social equivalesse a una tendenza al miglioramento delle condizioni di vita e alla prossimità con gli altri esseri umani, esserlo avrebbe ancora un significato profondo nella società di oggi.
Altrimenti il rischio diventa quello di dirlo soltanto a parole, tweet e stories, configurando in realtà l’epoca meno social di sempre, intrisa di un narcisismo vincolato allo sfoggio di capi fuori di moda.

Prenderne consapevolezza sarebbe molto utile, senza considerare altrimenti il pericolo scampato di ricevere un tweet da qualcuno che non ci aspetteremmo.

Vero, Jim?

ARS Bambina

In occasione della visita a Palermo del Presidente cinese, Xi Jinping, il piccolo (ha 8 anni) Antonio Tancredi Cadili si è esibito in uno spettacolo dal vivo che certamente sarà raccontato ai migliori registi teatrali del Paese dal loro Presidente.

A Palazzo Reale, Antonio ha rappresentato un brano dell’opera dei pupi: il dialogo tra Orlando e la bellissima Angelica, che era originaria del Catai, la nuova Cina.
La sua esibizione ha commosso Presidente e consorte, che infatti hanno invitato Antonio in Cina per fargli vedere come anche lì sia presente una grande tradizione della migliore ars oratoria siciliana.

Già, i pupi, diventati patrimonio Unesco nel 2008 e da secoli patrimonio della Sicilia.

Ma cos’ha a che fare questa storia con la realtà di oggi? Tantissimo.

Prima di tutto che, in un’epoca di pupi malvestiti da cavalieri, il ritorno al loro originale utilizzo dovrebbe inorgoglire tutti quanti. Compresi i costumisti di professione.

Poi, il luogo della scena: Palazzo dei Normanni, sede dell’Ars (a proposito di maschere), e simbolo della politica siciliana, così bella e preziosa, oltre tutto il resto. Non dimentichiamo che i Normanni erano famosi per le battaglie e le grandi conquiste.

Infine: la meraviglia di uno dei più grandi uomini della Terra per un bambino.
Ci chiediamo mai il motivo perché i bambini ci meraviglino tanto, perché sappiano attirarci una carezza, uno sguardo d’amore e la completa tenerezza in maniera del tutto gratuita e naturale?

Salvo Piparo, maestro puparo per eccellenza, di Antonio ha detto: «caro maestro, ho realizzato il sogno della mia carriera: lavorare con te che sei tutte le espressioni che ho perso crescendo».

Ecco, i bambini ci colpiscono in questo: agiscono per amore, spontaneamente, senza malcelati fini né secondari interessi da curare.

Antonio muove quei pupi perché gli piace farlo.
Non lo fa per soldi, né per compiacere qualcuno.
Segue soltanto le sue passioni, e, facendolo in modo naturale senza pensare a nient’altro che ai pupi, gli riesce perfettamente.

Noi facciamo qualcosa pensando a cosa può darci.
Loro fanno qualcosa pensando a cosa possono dargli loro stessi per farla bene.

Sta qui la differenza, nell’immediatezza di un’azione infantile fatta con amore, e in quella adulta fatta per guadagno.

Non tutti gli adulti sono così, ovviamente, né tutti i bambini sono come Antonio.
Ma questo esempio deve ricordarci che tornare bambini significa spogliarsi del superfluo, per arrivare al cuore di noi stessi attraverso ciò che facciamo.

Io proporrei di abolire tutti i sinonimi di infantile. Infantile non significa sciocco, ridicolo, sprovveduto, ma tutto il contrario.

Essere bambini infatti è un’arte, non un ciao pronunciato distrattamente al vicino di casa che scontri per strada, ma il wow pronunciato con la bocca a O per tutto ciò che incontri nel mondo, dove ogni coperchio che togli diventa una scoperta da capo, anche se in fondo lo conoscevi già.

L’ARS Bambina è un sentimento puro da esercitare con chiunque, prima di tutto con sé stessi: per esserlo infatti, i bambini non recitano, nemmeno quando rappresentano i pupi.

Semplicemente, fanno gli uomini, ruolo che gli adulti spesso dimenticano a recitare.

Bravo Antonio, continua a insegnarci come fare.
Per imparare, tu, avrai tanto di quel tempo, anche nell’estremo oriente.
Basta che il tuo, non diventi un caso di espatrio precoce: potresti iniziare la “fuga dei monelli”.

Sono solo canzonette

Il mio commento di Sanremo 2019 parte da qui, da un sincero «non mi è piaciuto». Tolta la valutazione bollente, andiamo con ordine all’analisi del Festival.

24 cantanti sono tanti, troppi, anche in termini di voti che finiscono inevitabilmente per disperdersi. Così come cantare 4 volte le stesse canzoni, probabilmente, aumenta anche lo stress e la fatica dei cantanti in gara (Arisa e Anna Tatangelo su tutti): la serata del venerdì dedicata ai grandi successi del passato era una buona strategia diversiva di Conti. Da rivedere di conseguenza anche gli orari: perché trascinarsi per forza fino alle ore piccole, spesso con l’inerzia di spettacoletti poco spettacolari?

La mancanza della scala da scendere, la scala in cui inciampare, la scala in cui sfilare, ha tolto un simbolo al Festival, rimpiazzata peraltro da gradoni traballanti simili più a lastroni di ghiaccio cadenti che a una via d’entrata allo spettacolo. Brutto vedere gli ingressi di lato. Scanzonati.

Le luci: bellissime, hanno disegnato scenografie a sé con composizioni uniche e architetture reali che hanno creato un’atmosfera calda e in linea con ciò che veniva espresso sul palco. L’importanza di un ottimo light designer.

Bisio e Virginia insieme non hanno funzionato: inutile e dannoso fare paragoni con l’anno passato, ma impossibile non notare la mancanza di una miscela completa. Nè l’uno nè l’altro sono presentatori di razza, Baglioni come da tradizione si defilava, mancava quindi qualcuno che prendesse in mano le redini dello svolgimento e non poteva, ahilui, farlo Bisio da solo.

I risultati di share sono un dato interessante, a cui forse viene data troppa importanza: cos’altro vuoi che guardi la gente, quando ogni canale sospende la propria programmazione in tempo di Sanremo? Così come appendersi addosso il merito del successo sui social, in un’epoca in cui i social sono il mezzo di comunicazione (anche broacast) più diffuso, è un po’ melenso. Se la gente guarda solo quello, di che può parlare?

Plauso alla meravigliosa orchestra, quest’anno perfetta e al naturale (il pianista che alla prima sera ha ritardato l’esibizione di Patty Pravo con Briga perché doveva far pipì): ma ci pensate che questi maestri provano da 45 giorni, e stanno 5 sere di seguito seduti su uno sgabello a sfiatarsi di continuo ed avere sempre sulle loro dita la responsabilità della musica? Mistici.

Passiamo ai cantanti: detto di una avversione cronica dei voti per la Tatangelo (nonostante bella presenza e bella voce), sorprende la bocciatura di alcuni big come Nek e Renga, penalizzati probabilmente da canzoni al di sotto del loro livello. Nigiotti meritava di scalare qualche altra posizione, mentre tutto sommato può dirsi parzialmente contento Achille Lauro, diverso per genere e tonalità e quindi una scommessa (a mio avviso, riuscitissima), acclamato da pubblico e critica; bene pure i Zen Circus, dittatori per il dirottarore. Arisa evanescente (come il suo stato di salute), Silvestri compless(iv)amente un gran risultato, anche per il messaggio che voleva mandare.
Fosse per me avrei allargato il podio a 5: con Loredana Bertè e Simone Cristicchi ancora in gara per il titolo finale, probabilmente avremmo avuto un altro vincitore. Entrambi meritavano sicuramente molto di più, per motivi diversi ma riassumibili nei tremiti al collo che hanno regalato sopra tutti. Io avrei continuato a fischiare la loro assenza dai primi posti.

3° classificato: Il Volo piace al pubblico perché gli ricorda l’antica tradizione dei cantanti del passato; a me però la loro canzone ha ricordato soprattutto quella di 4 anni fa, specialmente nell’attacco. Bravi comunque.

2° classificato: Ultimo avrebbe meritato almeno un buffetto da qualcuno, in fondo è il primo di quelli che non hanno vinto il Festival, e quindi aveva tutte le ragioni del mondo ad avercela… col mondo intero (e si è visto in conferenza). La potenza delle sua voce e il tempo interminabile della sua rincorsa emotiva gli daranno ancora tante vittorie. Continua così.

1° classificato: Mahmood è piaciuto, più di tutti. Non ci sono chissà quali complotti dietro. Un detto recita “Chi vince festeggia e chi perde spiega”. A lui è toccata la prima.

A questo punto, forse, sarebbe bene dire due parole sui meccanismi di voto, composti da:

  • perditempo che cercano di sovvertire il Festival giocando con la democraticità dei 5 voti a disposizione;
  • giornalisti che si trasformano in fan di uno o di un altro cantante, finendo per recitare il loro ruolo come gareggianti invece di spettatori (c’è un video in cui esultano al 3° posto, o meglio, al 1° posto mancato del Volo applaudendo e gridando “merde”): poca neutralità;
  • una giuria di esperti che, in virtù della loro competenza, finisce per votare qualcosa di diverso per autocertificare la propria condizione di giurati. Della serie “io so io…”. Anche qui “tanta neutralità”: Bastianich, per esempio, è sicuramente uno esperto di gaffe su Instagram (cit. vote @Negritaband).

Probabilmente bisognerebbe cambiare qualcosa (basta guardare la discrepanza tra televoto e gli altri due sistemi per farsi un’idea), e di questo se n’è accorto anche il direttore artistico che questa mattina ha detto:
«Sono d’accordo su due linee: o il Festival viene deciso da giurie ristrette di addetti ai lavori, o questa mescolanza di tre o quattro giurie diventa discutibile. Qualsiasi direttore artistico si è trovato davanti a questo problema. C’è un atteggiamento timoroso verso la sala stampa: si pensa che togliere a critici ed addetti ai lavori questa possibilità possa suscitare ostilità. Io non so se accadrebbe davvero, ho sempre grande rispetto per la stampa, ma io penso che se il Festival vuole essere davvero una manifestazione popolare, potrebbe essere gestita solo dal televoto. A mio avviso o si sceglie una linea o si sceglie l’altra».

Chiudo così: Baglioni era meglio si fermava al primo Festival, sicuramente non a un terzo. Lui, tanto, mica lo fa per Soldi, soldi. Clap clap.

Istruzioni per l’uso

Lo scorso Novembre, durante la visita di Donald Trump in Cina, e’ accaduto un fatto curioso che poteva diventare pericoloso.
Mentre The Donald e consorte sono attesi nella Grande Sala del Popolo su piazza Tienanmen, dietro le quinte accade qualcosa di imprevisto: l’ufficiale americano con in mano il nuclear football, cioe’ la valigetta contenente i codici per un lancio di missili nucleari, e’ stato fermato dai cinesi a un tornello di metal detector.
Trump non si accorge di quanto sta succedendo nelle retrovie e tira dritto, ma c’e’ un problema: quella valigetta deve essere sempre a disposizione del Presidente degli Stati Uniti d’America, ovunque egli si trova.
Insomma, stava per accadere un incidente diplomatico.
Per fortuna interviene il generale Kelly, capo di Gabinetto della Casa Bianca, il quale preso di coraggio si ispira al football nazionale e improvvisa un’offensiva collettiva: tutti insieme varcheranno quei cancelli, in un unico blocco, valigetta compresa.
Ci sono un po’ di spintoni, qualche placcaggio, ma alla fine il gioco di squadra ha la meglio e il Presidente torna in possesso del suo prezioso bagaglio a mano.
Detto che sarebbe auspicabile un protocollo piu’ efficace in queste occasioni, vi immaginate cosa sarebbe successo se un cinese si fosse appropriato dei codici nucleari americani?
Magari avrebbe iniziato a smontare la valigetta pezzo per pezzo per capirne il meccanismo e avviarne una produzione in serie; oppure avrebbe sostituito i pezzi originali con qualche ricambio rigorosamente made in China; o ancora avrebbe forse stampato un manuale di istruzioni (in cinese certo) in modo tale da far desistere chiunque dal suo utilizzo.
Probabilmente non avrebbe premuto alcun bottone pero’: quella e’ roba di Donald e Kim.
I cinesi infatti non sono interessati a un singolo pulsante, preferiscono le tastiere. Perche’ in fondo, se bisogna scegliere qualcuno da far saltare, e’ sempre meglio che siano tasti, e non teste.

Pieni di ammezzati

Secondo un articolo del Sole 24 Ore e’ di circa 1 miliardo di euro l’importo delle bollette elettriche non pagate dagli Italiani. Per far fronte a questo ammanco l’Autorita’ dell’energia, su ricorso del Tar e del Consiglio di Stato, ha stabilito che saranno gli onesti consumatori a pagare per gli evasori.
In sostanza, 200 milioni arretrati di oneri generalisaranno posti a carico di chi paga le bollette con regolarita’.
Lo stesso meccanismo d’altronde era gia’ stato usato per il canone Rai: se qualcuno non pagava, il povero (calza a pennello) contribuente doveva sorbirsi un aumento per controbilanciare la perdita in bilancio.
Ma al bilancio delle famiglie, chi guarda?
Ci samo abituati ad essere il Paese con una fra le tassazioni piu’ alte al mondo, possiamo fregiarci anche del titolo di record interno di evasione, ma c’e’ un indice che misura il livello di salute delle famiglie italiane?
Il cittadino medio, gia’ abbastanza vessato dai contributi che deve versare all’erario, adesso deve pure accollarsi i costi di chi non paga. Domanda lecita: <<ma se io mi comporto bene perche’ devo essere penalizzato, mentre chi infrange le regole (che molto spesso sta anche meglio di me) non viene punito?>>. Giusta osservazione.
Il fatto e’ che in Italia ormai si e’ venuta a creare una polarizzazione sociale per cui agli estremi della scala (poveri e ricchi) sono concessi vantaggi, mentre chi si trova nel mezzo della matassa non gode di alcun beneficio. I primi godono infatti di agevolazioni e sgravi che permettono loro di sopravvivere nel quotidiano, mentre i secondi (condizione economica a parte) riescono ad ottenere un quadro di accorgimenti virtuosi che gli permette di accumulare sempre di piu’.
Insomma, per l’Italiano medio non c’e’ scampo. E come cantava qualcuno, “non togliermi il pallone e non ti disturbo piu’, sono l’italiano medio nel blu dipinto di blu”.
<<Ragioniere che fa, batti?>>